Come uscire dal vicolo cieco delle “non riforme” in sanità… Non sbagliando la riforma del territorio (9ª e ultima parte)
- 13 Gen 2016 alle 07:38:29
Difficile non condividere le considerazioni di Cavicchi, perfettamente estensibili anche alla Pediatria: “Si continua a parlare di riformare le cure primarie come una semplice riorganizzazione dei medici di medicina generale, senza sapere che se non vi sarà un ripensamento riformatore vero, degli squilibri interni al sistema, tra medicina di base specialistica e ospedaliera, si farà l’ennesimo buco nell’acqua.”
Il rischio c’è. Perché si continua a parlare di riformarele cure primarie come una semplice riorganizzazione dei medici di medicina generale, senza sapere che se non vi sarà un ripensamento riformatore vero, degli squilibri interni al sistema, tra medicina di base specialistica e ospedaliera, si farà l’ennesimo buco nell’acqua.
07 GEN [QuotidianoSanità.it] - Cerchiamo di riassumere. Sono 30 anni che:
· non facciamo altro che lamentarci dell’ospedale;
· in nome della deospedalizzazione contrapponiamo ospedale e territorio come una antitesi;
· mitizziamo il territorio inseguendo una integrazione con l’ospedale che non siamo mai riusciti a fare (a parte le parziali eccezioni);
· vediamo il territorio come compensazione alla deospedalizzazione;
· l’ospedale è visto come un problema di insostenibilità e il distretto come la sua soluzione.
Insomma sanità contro sanità.
Nelle intenzioni della riforma del ‘78 medicina di base, distretto (specialistica ambulatoriale inclusa) e ospedale avrebbero dovuto far parte di un comune sistema sanitario, cioè la Usl avrebbe dovuto essere il contenitore comune e quindi una garanzia di covalenza funzionale tra medicina di base servizi e ospedale.
Ma così non è stato per tante ragioni:
· non basta una covalenza giuridica a integrare qualcosa e a creare le relazioni che non ci sono mai state;
· medicina di base distretto e ospedale restano separati perché ciò che è stato concepito come diviso senza una riforma dei modelli non è facilmente integrabile;
· a fronte di una grande retorica sull’integrazione le spinte sono state tutte prevalentemente disintegranti (scorporo degli ospedali, autarchia della medicina di base, autonomia gestionale dei distretti ,autonomia dei servizi, finte dipartimentalizzazioni, ecc.).
Ma la covalenza giuridica della Usl definita con la riforma del ‘78 nulla ha potuto rispetto all’invarianza a diversi livelli dell’autarchia di ognuno in quanto tale.
Tre sono i fattori che spiegano la crescita dell’autarchia ospedaliera messa a regime con la riforma ospedaliera del ‘68:
· il crescente processo di specializzazione della medicina;
· la crescente crescita della domanda di assistenza ospedaliera;
· il numero crescente di posti letto causati soprattutto dal criterio usato dalle mutue per pagare gli ospedali (la retta per giornata di degenza) e dal criterio usato per pagare i medici (il numero dei posti letto).
Questi tre fattori sono a monte di un problema di sostenibilità finanziaria che la riforma del ‘78 proprio perché non ha riformato i modelli, si è limitata ad ereditare e a perpetuare.
Fino alla riforma del ‘78 i posti letto continuarono a crescere (da 1964 al 1974 di circa 100.000) la spesa passò in dieci anni da 500 mld a 4.500 mld di lire, una spesa assorbita almeno per il 52% dal sistema ospedaliero. La riforma del ‘78 eredita uno sbilanciamento territorio/ospedale quindi un problema di sostenibilità finanziaria che non riuscirà mai a riequilibrare e che si porterà dietro fino ai nostri giorni.
Oggi si sta tentando di contenere questo sbilanciamento tagliando i posti letto ma la cosa assurda è che nessuno:
· si pone il problema di riformare le cause antiche che lo hanno provocato, meno che mai l’autarchia tanto della medicina di base che dell’ospedale;
· di fare i conti con la domanda che cambia;
· di andare oltre la covalenza giuridica dei diversi servizi per costruire una vera connettività funzionale tra le funzioni.
Non una integrazione tra cose diverse come diciamo inutilmente da oltre 30 anni ma una unità articolata in una continuità di cose contigue e adiacenti dalla medicina di base all’ospedale.
Ma come stavano le cose prima delle mutue? Le cose erano esattamente l’opposto, la medicina si faceva soprattutto a domicilio del malato quindi nel suo luogo di vita, non in ospedale. Essa con il testo unico delle leggi sanitarie del 1934 era svolta soprattutto dai medici condotti, stipendiati dai comuni che curavano gratuitamente i più bisognosi e che erano pagati per gli altri a tariffa. Quindi condotte e luogo di vita dei malati erano coincidenti.
Con le mutue ai medici condotti si affiancarono in modo del tutto parallelo i famosi “medici della mutua” (pagati a notula cioè in un modo che fu pagato a caro prezzo dalla sostenibilità) la mutua piano piano prende il posto della condotta. Medici condotti e medici della mutua entrambi saranno superati con la riforma del ‘78 con l’istituzione del medico di medicina generale convenzionato un libero professionista pagato come un pubblico dipendente ma del tutto indipendente dal resto del sistema sanitario.
Oggi per ragioni di sostenibilità si dovrebbe ribilanciare il sistema sanitario sul luogo di vita facendo del distretto uno snodo o una cerniera tra comunità e ospedale intendendo per sanità un sistema continuo che va dalla medicina di base a quella ospedaliera. Ma cosa vuol dire continuo? E qual è il suo contrario? Un sistema sanitario è considerato discreto se è costituito da servizi o funzioni isolati, anche se contigui tra loro. E’ invece considerato continuo se contiene servizi o funzioni tra i quali non vi sono spazi vuoti cioè vi siano relazioni funzionali attive che abbattono le barriere.
La lettura attenta della riforma del ‘78 rivela una curiosa quanto fatale contraddizione tra il concetto dicontinuo e il concetto di discreto:
· da una parte quando si parla di prestazioni da erogare tutte le funzioni dalla medicina generale all’assistenza ospedaliera passando per quelle distrettuali e specialistiche ambulatoriali sono consideratecontinue (art.14/usl,19/prestazioni delle usl, 25/prestazioni di cura), cioè sono tutte poste sullo stesso livello e considerate un unico sistema continuo;
· dall’altra però proprio perché non c’è stata nessuna riforma dei modelli e tutta l’operazione si è appiattita sulla covalenza giuridica dei servizi ogni funzione è autarchica, quindi in questo senso il loro insieme si costituisce quale insieme discreto dove tutto è discreto non solo il territorio nei confronti dell’ospedale ma anche la medicina generale e il distretto e nel distretto ogni ambulatorio e il distretto e l’ospedale.
La riforma del ‘78 non ha rimosso la contraddizione tra ciò che per essere continuo non può essere discreto. Questa contraddizione oggi più pesante di ieri ci è costata cara proprio in termini di sostenibilità. Ha sbilanciato il sistema sempre più sull’ospedale, ha svalutato il territorio facendone alla fine una sanità ancillare all’ospedale. Oggi si parla di riforma delle cure primarie in modo del tutto separato da questi problemi, quindi come una semplice riorganizzazione dei medici di medicina generale, senza sapere che se non vi sarà un ripensamento riformatore vero, degli squilibri interni al sistema, tra medicina di base specialistica e ospedaliera, (discreto e continuo), si farà l’ennesimo buco nell’acqua.
In una recente intervista il segretario nazionale della Fimmg dichiara: “Il modello di sanità territoriale che si vuole adottare nelle diverse Regioni non ci interessa. Non ci interessa la carrozzeria di questa nuova auto. Quello a cui teniamo è il motore e il cervello del mezzo. E quel motore e quel cervello siamo noi e nessun altro”. (QS 30 novembre 2015). Ecco cosa vuol dire discreto, enclave, autarchia. Ecco il grande impedimento. Se questo modo di vedere la sanità non cambierà avremo sempre problemi di sostenibilità e saremo sempre definanziati.
Ivan Cavicchi
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07 gennaio 2016 © Riproduzione riservata
