Da qualche tempo, all’interno di ACPO, ci confrontiamo sul tema dello “spazio” da lasciare al bambino durante la visita in pediatria di famiglia. Nell’articolo in cui è descritta la storia di Mara [1], abbiamo raccontato un caso in cui la comunicazione pediatra-bambina è stata facile ed è risultata indispensabile a individuare un malessere della piccola, inaspettato e sconosciuto ai suoi stessi genitori. Nell’articolo di oggi, la storia di Mario, raccontiamo invece di un dialogo pediatra-bambino più difficile e contrastato, che, nel momento in cui riesce a realizzarsi, si rivela prezioso per sbloccare la relazione del medico con l’intera famiglia e per aprire la strada, secondo un modello bio-psico-sociale, a un maggior benessere del bambino.
Lately within ACPO we have faced the need to give “space” to the child during an office visit in paediatric primary care. In the precedent article, describing the story of Mara, we reported a case in which the paediatrician-child communication was easy and necessary to identify a malaise in the child, unexpected and unknown to her own parents. In today’s article, in Mario’s story, we describe a difficult and constrated paediatrician-child communication. Nevertheless, once realized, it becomes valuable in unlocking the docotr’s relationship with the entire family and in paving the way, by a bio-psycho-social model, to the child’s wellbeing.