La famiglia: difenderla o promuoverla?
- 06 Ago 2007 alle 16:34:00

La fine della famiglia
La rivoluzione di cui non ci siamo accorti
Mondadori 2007
pp. 151, euro 16,50
Roberto Volpi, dopo C’erano una volta i bambini (1998) e Liberiamo i bambini (2004), torna sull’argomento allargando il discorso alla famiglia: quella tradizionale e le altre “famiglie”.
Sono 151 pagine, con un patrimonio di note molto esaurienti. Il libro dovrebbe essere letto dai pediatri con molta attenzione. Nel 1971, fa notare Volpi, le famiglie erano 16 milioni e nel 2001 sono diventate quasi 22 milioni. Un successo? Forse no, se ci si chiede cosa c’è dietro il nome famiglia. Lasciamo parlare le cifre. Esistono “famiglie di una sola persona”: nel 1971 erano il 12%; nel 2003 il 25%.
Difficilmente queste possono rientrare nella definizione di famiglia tradizionale se la famiglia è intesa come un incontro fra due persone con lo scopo di generare figli. È un sintomo di crisi del vivere insieme? Forse sì, se questo 25% rappresenta quei cittadini che non vogliono assolutamente fare coppia, né dentro né fuori dal matrimonio.
Ci sono altri dati che parlano della crisi della coppia. Dai 25 ai 34 anni, età in cui fino a non molti anni fa ci si sposava, oltre la metà dei giovani (55%) non vive in coppia, ma da soli. Nei successivi 10 anni (cittadini di 35-44 anni), quando tutti potrebbero avere fatto famiglia, c’è ancora il 25% delle persone che non vive in coppia: stanno da soli o con i genitori.
Dal 1991 il numero dei maschi che vive con i genitori è passato dal 53% al 70%; quello delle femmine dal 32% al 50%.
Ai giovani quindi non piace farsi una famiglia? O non riescono a farsela? Precarietà del lavoro? Abbandono di modelli culturali un tempo accettati? Comodità a vivere nelle famiglie o, al contrario, modi di vivere nelle famiglie d’origine non accettati? Forse un po’ di tutto, ma che la famiglia tradizionale sia difficile da realizzare è oggi un dato di fatto.
La cosa è confermata dal fatto che circa 630.000 giovani dai 25 ai 34 anni sono usciti dalla famiglia, ma hanno fatto una scelta di “non coppia”: non vivono più nella famiglia di origine, non ne hanno una propria, né fanno parte di unioni di fatto. Poi ci sono, per fortuna, coloro che in coppia ci vivono. Però la vecchia unità con almeno cinque persone, quella capace di realizzare i modi di essere della famiglia, come la convivenza delle diversità, dei gusti, dei lavori, dei valori, è diminuita drasticamente dal 21,5% del 1971 al 6,5% del 2003; quella di quattro persone è oggi al 35%. Al censimento 2001 le coppie (sposate o conviventi) con figli erano il 43%, le coppie (sposate o conviventi) senza figli il 22%. Nell’11% erano famiglie con figli, ma con un solo genitore (celibe o nubile, separato o divorziato, ma non vedovo). I governi che si sono succeduti, durante un cinquantennio, hanno affrontato il problema delle famiglie, sul piano della sicurezza sanitaria/
biologica fino a una eccessiva medicalizzazione ma non su quello della sicurezza personale e sociale. L’assistenza, come è impostata in ambito nazionale, è dedicata alla “gravida” e non alla famiglia che aspetta un figlio. Lo stesso dicasi per l’assistenza ai bambini, puramente sanitaria, che ha avuto come effetto secondario una deresponsabilizzazione delle famiglie. Oggi la spesa sociale dedicata alla famiglia e maternità in Italia è la più bassa dell’OCSE e, come dimostrano i dati dell’ultimo DPEF, è ferma al 3-4% della spesa sociale globale contro una media dell’UE del 15-17%.
I dati di Volpi, molti, interessanti e bene spiegati, ci pongono problemi molto seri, specialmente in un momento come questo in cui la discussione è più legata alla tipologia della convivenza che alle cose da fare per venire incontro alle difficoltà di vita delle famiglie che hanno vissuto, dice il sottotitolo, una rivoluzione di cui non ci siamo accorti.
Forse ha ragione il cardinale Martini quando dice che la famiglia va promossa più che difesa.
Sono 151 pagine, con un patrimonio di note molto esaurienti. Il libro dovrebbe essere letto dai pediatri con molta attenzione. Nel 1971, fa notare Volpi, le famiglie erano 16 milioni e nel 2001 sono diventate quasi 22 milioni. Un successo? Forse no, se ci si chiede cosa c’è dietro il nome famiglia. Lasciamo parlare le cifre. Esistono “famiglie di una sola persona”: nel 1971 erano il 12%; nel 2003 il 25%.
Difficilmente queste possono rientrare nella definizione di famiglia tradizionale se la famiglia è intesa come un incontro fra due persone con lo scopo di generare figli. È un sintomo di crisi del vivere insieme? Forse sì, se questo 25% rappresenta quei cittadini che non vogliono assolutamente fare coppia, né dentro né fuori dal matrimonio.
Ci sono altri dati che parlano della crisi della coppia. Dai 25 ai 34 anni, età in cui fino a non molti anni fa ci si sposava, oltre la metà dei giovani (55%) non vive in coppia, ma da soli. Nei successivi 10 anni (cittadini di 35-44 anni), quando tutti potrebbero avere fatto famiglia, c’è ancora il 25% delle persone che non vive in coppia: stanno da soli o con i genitori.
Dal 1991 il numero dei maschi che vive con i genitori è passato dal 53% al 70%; quello delle femmine dal 32% al 50%.
Ai giovani quindi non piace farsi una famiglia? O non riescono a farsela? Precarietà del lavoro? Abbandono di modelli culturali un tempo accettati? Comodità a vivere nelle famiglie o, al contrario, modi di vivere nelle famiglie d’origine non accettati? Forse un po’ di tutto, ma che la famiglia tradizionale sia difficile da realizzare è oggi un dato di fatto.
La cosa è confermata dal fatto che circa 630.000 giovani dai 25 ai 34 anni sono usciti dalla famiglia, ma hanno fatto una scelta di “non coppia”: non vivono più nella famiglia di origine, non ne hanno una propria, né fanno parte di unioni di fatto. Poi ci sono, per fortuna, coloro che in coppia ci vivono. Però la vecchia unità con almeno cinque persone, quella capace di realizzare i modi di essere della famiglia, come la convivenza delle diversità, dei gusti, dei lavori, dei valori, è diminuita drasticamente dal 21,5% del 1971 al 6,5% del 2003; quella di quattro persone è oggi al 35%. Al censimento 2001 le coppie (sposate o conviventi) con figli erano il 43%, le coppie (sposate o conviventi) senza figli il 22%. Nell’11% erano famiglie con figli, ma con un solo genitore (celibe o nubile, separato o divorziato, ma non vedovo). I governi che si sono succeduti, durante un cinquantennio, hanno affrontato il problema delle famiglie, sul piano della sicurezza sanitaria/
biologica fino a una eccessiva medicalizzazione ma non su quello della sicurezza personale e sociale. L’assistenza, come è impostata in ambito nazionale, è dedicata alla “gravida” e non alla famiglia che aspetta un figlio. Lo stesso dicasi per l’assistenza ai bambini, puramente sanitaria, che ha avuto come effetto secondario una deresponsabilizzazione delle famiglie. Oggi la spesa sociale dedicata alla famiglia e maternità in Italia è la più bassa dell’OCSE e, come dimostrano i dati dell’ultimo DPEF, è ferma al 3-4% della spesa sociale globale contro una media dell’UE del 15-17%.
I dati di Volpi, molti, interessanti e bene spiegati, ci pongono problemi molto seri, specialmente in un momento come questo in cui la discussione è più legata alla tipologia della convivenza che alle cose da fare per venire incontro alle difficoltà di vita delle famiglie che hanno vissuto, dice il sottotitolo, una rivoluzione di cui non ci siamo accorti.
Forse ha ragione il cardinale Martini quando dice che la famiglia va promossa più che difesa.
Giancarlo Biasini